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Ladataan... Alice nel Paese delle Meraviglie (alkuperäinen julkaisuvuosi 1865; vuoden 1991 painos)Tekijä: Lewis Carroll
TeostiedotLiisan seikkailut ihmemaassa (tekijä: Lewis Carroll) (1865)
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reviewed When i read this last time i never wrote a review for it: possibly because i'd only just written a review for Alice's Adventures Under Ground and didn't really see the need to say much the same for this book. So what brings me to reading this book again and writing a review now, you may ask. Well, it's because i just finished reading Heartless by Marissa Meyer and i so wanted to see how well it would flow into Alice's Adventures in Wonderland if it was read as a prequel. Now i'm certainly not saying that this book needs a prequel, but if it were to have one then Heartless has my full blessings to occupy that honoured place. Yes, Alice's Adventures in Wonderland is a wonderful book in and of itself and really doesn't need me to write another review of it here, and it stands alone without any need for a prequel, but i actually feel that it makes a much better reading experience if you read Heartless beforehand. Here be some more 'Alice and Wonderland' books. Si tratta di una seconda edizione in versione digitale messa a disposizione dal progetto Liber Liber, pubblicata originariamente nel 1872, dall’editore torinese Loescher con traduzione dall’originale di T. Pietrocòla-Rossetti con le belle vignette (42 per la precisione) curate da John Tenniel (tradotto in Giovanni) e spesso riprese, in modo parziale, da tantissime altre edizioni contemporanee. Tenniel, pittore e illustratore britannico, per quasi tutta la carriera disegnò vignette satiriche e caricature per la rivista Punch, ma è ricordato soprattutto per le sue illustrazioni nei romanzi di Lewis Carroll: Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio. Di “Alice nel paese delle meraviglie” scritto da Lewis Carroll, all’anagrafe di Daresbury registrato come Charles Lutwidge Dogson, è già stato scritto più di tutto quello che si poteva scrivere, argomentare, talvolta elucubrare. Pubblicato nel 1865, come una storia fantastica per l’infanzia, ha assunto, nel corso degli anni, connotazioni letterario pedagogico antropologiche che il buon Charles, da dove si trova ora, si starà rigirando senza trovar pace a pensare cosa abbia provocato quel suo racconto dedicato a tre bambine, figlie dell’amico e rettore dell'Università di Oxford Henry Liddell: Alice Pleasance, Ina e Edith. A dirla tutta, e se mi è concesso in licenza ad ogni seriosa analisi letteraria (di cui certo chiunque non mancherà di trovar bibliografia), a leggerlo oggi ci si potrebbe domandare che tipo d’erba fosse d’abitudine consumare l’autore, tanto è strampalato e “allucinogeno” il suo racconto. Al punto, credetemi, che se Lewis Carroll fosse vissuto in piena epoca beat, anziché in quella vittoriana, nessuno si sarebbe stupito se si fosse aiutato nell’ispirazione da un qualche fungo dalle proprietà lisergiche. Non meno efficace poi, deve essere il tipo di sostanza che hanno assunto invece le intere generazioni di analisti dell’opera di Carroll e dell’autore stesso. Se non mi credete ne prendo una a caso, pubblicata nel 1975. Proviamo a leggerla insieme: “La diagnosi psicoanalitica spesso formulata su Carroll è la seguente: impossibilità di affrontare la situazione epidica, fuga davanti al padre e rinuncia alla madre, proiezione sulla bambina a un tempo identificata come fallo e come priva di pene, regressione orale-anale conseguente. Tuttavia tali diagnosi hanno pochissimo interesse e si sa bene che non è in tal modo che la psicoanalisi e l’opera d’arte possono annodare il loro incontro (...) Il carattere positivo altamente affermativo della desessualizzazione consiste nella sostituzione della regressione fisica da parte dell’intervento speculativo”. Non c’è male vero? Vi ho avvicinato alla teoria della fumatina proibita? Assonante a quella del Brucaliffo che, nella fantasia di Lewis Carroll, fumava un narghilè seduto su di un fungo dalle straordinarie proprietà. Che sia per questo che il governatore cinese Ho Chien, della provincia di Hunan, nel 1931 censurò l’opera? Egli ritenne eccessiva l’umanizzazione data al bestiario fantastico che accompagna la povera Alice, in modo particolare per quel modo d’esprimersi un po’ troppo simile all’uomo, capace di insinuare nei bambini chissà quali pericolosi pensieri. Probabilmente non solo nei bambini ebbe a pensare Ho Chien, visto che il Paese delle meraviglie è una strana antimateria in cui collidono leggi e principi del nostro caro mondo, capovolgendo senso, tempo e spazio, ma soprattutto le logiche sociali e politiche. E forse anche la mente di chi, nel leggerlo e rileggerlo, cerca di estrapolare esoterici significati o addirittura guarda diritto al nirvana. Chissà se al buon Ho Chien fosse capitato tra le mani “La fattoria degli animali” di George Orwell, uscito nel 1945! Innanzi a tutto ciò, mi asterrò quindi saggiamente dal tentare un’analisi dei significati di questo testo, cadrei in spiccia pedagogia da copia e incolla, e tanto meno cercherò di inerpicarmi sulla ripida scogliera dei numerosi giochi di parole del vocabolario inglese cui fa sovente ricorso l’autore (mine is a long and a sad tale, tanto per fare un esempio tra gli innumerevoli possibili, in cui si nota un gioco di parole, un pun tra tale, racconto, e tail, coda). Preferisco rimandare chi mi sta leggendo, con quel sorriso da Stregatto stampato sulla faccia, a qualche edizione contemporanea commentata o corredata di note (talvolta più del testo stesso). Cito, ad esempio, quella che possiedo, edita nella Biblioteca Universale Rizzoli nel 1998 e curata, nella sua edizione, da Attilio Brilli e Tommaso Giglio. Scelgo dunque di concentrarmi su qualche aspetto più terreno di questa celebre avventura fantastica in cui incappa la piccola Alice, o meglio sprofonda in caduta libera nel sottosuolo in cui si svolge, tanto che il titolo originale era proprio “Alice underground”. Un mondo non convenzionale, tanto quanto lo fu l’autore nel pensarlo e scriverlo mettendo a nudo le contraddizioni e il moralismo della società inglese dell’epoca vittoriana. Un periodo in cui, la storia fantastica di Lewis Carroll, rompe gli schemi della letteratura per l’infanzia il cui ruolo nell’educazione dei bambini, in modo particolare se espressione della classe media o di una certa aristocrazia, era quello puramente educativo, percorso obbligato per l’ingresso nella società adulta, segnato dai punti fermi di un certo tipo di insegnamento assai poco avvezzo a storie puramente fantastiche, ancor più se strampalate negli eventi e nei personaggi, da stravolgere la tradizionale immagine della scolara diligente. E Alice qui è tutt’altro che la prima della classe, al punto da non rammentare nulla di ciò che la scuola le ha insegnato, filastrocche e poesie comprese, ma ricerca e s’impossessa di uno spazio aperto alla fantasia e all’immaginazione, in barba alle regole della logica ed alle leggi della fisica. Una Alice che cresce e si rimpicciolisce continuamente nella metafora del voler o non voler diventare adulti, sospesa tra due mondi, indecisa nella scelta, circondata da un bizzarro, quanto divertente e talvolta inquietante bestiario parlante: dal Bianconiglio sino al Cappellaio Matto, con a seguire la Lepre Marzolina, la Regina di Cuori, lo Stregatto e il Brucaliffo. Tutti rigorosamente illogici e privi di quel buon senso e di quell’ordine di stile vittoriano. Al di là di ogni considerazione pedagogica che se ne voglia trarre, è indubbio il successo che Alice riscosse nella società dell’epoca e in tutte quelle a seguire. Tanto da avere un seguito, sempre grazie alla penna e alla fantasia del suo autore che scrisse poi “Through the Looking Glass and What Alice Found There” (Attraverso lo Specchio e Quel che Alice vi Trovò). Un gradimento di pubblico che la storia ha voluto immortalare anche nella celluloide. Nella versione animata di Disney del 1951 ad esempio, o in varie sceneggiature cinematografiche, tra le quali, sempre targata Disney, “Alice in Wonderland”, film uscito in sala nel 2010 con la regia di Tim Burton ed con un cast di prime donne: Johnny Depp (Il Cappellaio Matto), Helena Bonham Carter (La Regina Rossa), Anne Hathaway (La Regina Bianca), Alan Rickman (il Brucaliffo) e Mia Wasikowska nella parte di Alice. Tra le varie edizioni che ho letto di quest'opera di fantasia ricordo, ancor prima di darne conto, che questa dell'Istituto Editoriale Italiano è stata pubblicata del 1914 e resa oggi disponibile in formato digitale dal progetto Liber Liber (nell’edizione elettronica non sono però presenti le tavole dell’edizione a stampa originale). Faccio notare come la traduzione presenta alcune differenze, nei titoli quanto nel testo, rispetto a edizioni succedutesi negli anni successivi. Di “Alice nel paese delle meraviglie” scritto da Lewis Carroll, all’anagrafe di Daresbury registrato come Charles Lutwidge Dogson, è già stato scritto più di tutto quello che si poteva scrivere, argomentare, talvolta elucubrare. Pubblicato nel 1865, come una storia fantastica per l’infanzia, ha assunto, nel corso degli anni, connotazioni letterario pedagogico antropologiche che il buon Charles, da dove si trova ora, si starà rigirando senza trovar pace a pensare cosa abbia provocato quel suo racconto dedicato a tre bambine, figlie dell’amico e rettore dell'Università di Oxford Henry Liddell: Alice Pleasance, Ina e Edith. A dirla tutta, e se mi è concesso in licenza ad ogni seriosa analisi letteraria (di cui certo chiunque non mancherà di trovar bibliografia), a leggerlo oggi ci si potrebbe domandare che tipo d’erba fosse d’abitudine consumare l’autore, tanto è strampalato e “allucinogeno” il suo racconto. Al punto, credetemi, che se Lewis Carroll fosse vissuto in piena epoca beat, anziché in quella vittoriana, nessuno si sarebbe stupito se si fosse aiutato nell’ispirazione da un qualche fungo dalle proprietà lisergiche. Non meno efficace poi, deve essere il tipo di sostanza che hanno assunto invece le intere generazioni di analisti dell’opera di Carroll e dell’autore stesso. Se non mi credete ne prendo una a caso, pubblicata nel 1975. Proviamo a leggerla insieme: “La diagnosi psicoanalitica spesso formulata su Carroll è la seguente: impossibilità di affrontare la situazione epidica, fuga davanti al padre e rinuncia alla madre, proiezione sulla bambina a un tempo identificata come fallo e come priva di pene, regressione orale-anale conseguente. Tuttavia tali diagnosi hanno pochissimo interesse e si sa bene che non è in tal modo che la psicoanalisi e l’opera d’arte possono annodare il loro incontro (...) Il carattere positivo altamente affermativo della desessualizzazione consiste nella sostituzione della regressione fisica da parte dell’intervento speculativo”. Non c’è male vero? Vi ho avvicinato alla teoria della fumatina proibita? Assonante a quella del Brucaliffo che, nella fantasia di Lewis Carroll, fumava un narghilè seduto su di un fungo dalle straordinarie proprietà. Che sia per questo che il governatore cinese Ho Chien, della provincia di Hunan, nel 1931 censurò l’opera? Egli ritenne eccessiva l’umanizzazione data al bestiario fantastico che accompagna la povera Alice, in modo particolare per quel modo d’esprimersi un po’ troppo simile all’uomo, capace di insinuare nei bambini chissà quali pericolosi pensieri. Probabilmente non solo nei bambini ebbe a pensare Ho Chien, visto che il Paese delle meraviglie è una strana antimateria in cui collidono leggi e principi del nostro caro mondo, capovolgendo senso, tempo e spazio, ma soprattutto le logiche sociali e politiche. E forse anche la mente di chi, nel leggerlo e rileggerlo, cerca di estrapolare esoterici significati o addirittura guarda diritto al nirvana. Chissà se al buon Ho Chien fosse capitato tra le mani “La fattoria degli animali” di George Orwell, uscito nel 1945! Innanzi a tutto ciò, mi asterrò quindi saggiamente dal tentare un’analisi dei significati di questo testo, cadrei in spiccia pedagogia da copia e incolla, e tanto meno cercherò di inerpicarmi sulla ripida scogliera dei numerosi giochi di parole del vocabolario inglese cui fa sovente ricorso l’autore (mine is a long and a sad tale, tanto per fare un esempio tra gli innumerevoli possibili, in cui si nota un gioco di parole, un pun tra tale, racconto, e tail, coda). Preferisco rimandare chi mi sta leggendo, con quel sorriso da Stregatto stampato sulla faccia, a qualche edizione contemporanea commentata o corredata di note (talvolta più del testo stesso). Cito, ad esempio, quella che possiedo, edita nella Biblioteca Universale Rizzoli nel 1998 e curata, nella sua edizione, da Attilio Brilli e Tommaso Giglio. Scelgo dunque di concentrarmi su qualche aspetto più terreno di questa celebre avventura fantastica in cui incappa la piccola Alice, o meglio sprofonda in caduta libera nel sottosuolo in cui si svolge, tanto che il titolo originale era proprio “Alice underground”. Un mondo non convenzionale, tanto quanto lo fu l’autore nel pensarlo e scriverlo mettendo a nudo le contraddizioni e il moralismo della società inglese dell’epoca vittoriana. Un periodo in cui, la storia fantastica di Lewis Carroll, rompe gli schemi della letteratura per l’infanzia il cui ruolo nell’educazione dei bambini, in modo particolare se espressione della classe media o di una certa aristocrazia, era quello puramente educativo, percorso obbligato per l’ingresso nella società adulta, segnato dai punti fermi di un certo tipo di insegnamento assai poco avvezzo a storie puramente fantastiche, ancor più se strampalate negli eventi e nei personaggi, da stravolgere la tradizionale immagine della scolara diligente. E Alice qui è tutt’altro che la prima della classe, al punto da non rammentare nulla di ciò che la scuola le ha insegnato, filastrocche e poesie comprese, ma ricerca e s’impossessa di uno spazio aperto alla fantasia e all’immaginazione, in barba alle regole della logica ed alle leggi della fisica. Una Alice che cresce e si rimpicciolisce continuamente nella metafora del voler o non voler diventare adulti, sospesa tra due mondi, indecisa nella scelta, circondata da un bizzarro, quanto divertente e talvolta inquietante bestiario parlante: dal Bianconiglio sino al Cappellaio Matto, con a seguire la Lepre Marzolina, la Regina di Cuori, lo Stregatto e il Brucaliffo. Tutti rigorosamente illogici e privi di quel buon senso e di quell’ordine di stile vittoriano. Al di là di ogni considerazione pedagogica che se ne voglia trarre, è indubbio il successo che Alice riscosse nella società dell’epoca e in tutte quelle a seguire. Tanto da avere un seguito, sempre grazie alla penna e alla fantasia del suo autore che scrisse poi “Through the Looking Glass and What Alice Found There” (Attraverso lo Specchio e Quel che Alice vi Trovò). Un gradimento di pubblico che la storia ha voluto immortalare anche nella celluloide. Nella versione animata di Disney del 1951 ad esempio, o in varie sceneggiature cinematografiche, tra le quali, sempre targata Disney, “Alice in Wonderland”, film uscito in sala nel 2010 con la regia di Tim Burton ed con un cast di prime donne: Johnny Depp (Il Cappellaio Matto), Helena Bonham Carter (La Regina Rossa), Anne Hathaway (La Regina Bianca), Alan Rickman (il Brucaliffo) e Mia Wasikowska nella parte di Alice. Di “Alice nel paese delle meraviglie” scritto da Lewis Carroll, all’anagrafe di Daresbury registrato come Charles Lutwidge Dogson, è già stato scritto più di tutto quello che si poteva scrivere, argomentare, talvolta elucubrare. Pubblicato nel 1865, come una storia fantastica per l’infanzia, ha assunto, nel corso degli anni, connotazioni letterario pedagogico antropologiche che il buon Charles, da dove si trova ora, si starà rigirando senza trovar pace a pensare cosa abbia provocato quel suo racconto dedicato a tre bambine, figlie dell’amico e rettore dell'Università di Oxford Henry Liddell: Alice Pleasance, Ina e Edith. A dirla tutta, e se mi è concesso in licenza ad ogni seriosa analisi letteraria (di cui certo chiunque non mancherà di trovar bibliografia), a leggerlo oggi ci si potrebbe domandare che tipo d’erba fosse d’abitudine consumare l’autore, tanto è strampalato e “allucinogeno” il suo racconto. Al punto, credetemi, che se Lewis Carroll fosse vissuto in piena epoca beat, anziché in quella vittoriana, nessuno si sarebbe stupito se si fosse aiutato nell’ispirazione da un qualche fungo dalle proprietà lisergiche. Non meno efficace poi, deve essere il tipo di sostanza che hanno assunto invece le intere generazioni di analisti dell’opera di Carroll e dell’autore stesso. Se non mi credete ne prendo una a caso, pubblicata nel 1975. Proviamo a leggerla insieme: “La diagnosi psicoanalitica spesso formulata su Carroll è la seguente: impossibilità di affrontare la situazione epidica, fuga davanti al padre e rinuncia alla madre, proiezione sulla bambina a un tempo identificata come fallo e come priva di pene, regressione orale-anale conseguente. Tuttavia tali diagnosi hanno pochissimo interesse e si sa bene che non è in tal modo che la psicoanalisi e l’opera d’arte possono annodare il loro incontro (...) Il carattere positivo altamente affermativo della desessualizzazione consiste nella sostituzione della regressione fisica da parte dell’intervento speculativo”. Non c’è male vero? Vi ho avvicinato alla teoria della fumatina proibita? Assonante a quella del Brucaliffo che, nella fantasia di Lewis Carroll, fumava un narghilè seduto su di un fungo dalle straordinarie proprietà. Che sia per questo che il governatore cinese Ho Chien, della provincia di Hunan, nel 1931 censurò l’opera? Egli ritenne eccessiva l’umanizzazione data al bestiario fantastico che accompagna la povera Alice, in modo particolare per quel modo d’esprimersi un po’ troppo simile all’uomo, capace di insinuare nei bambini chissà quali pericolosi pensieri. Probabilmente non solo nei bambini ebbe a pensare Ho Chien, visto che il Paese delle meraviglie è una strana antimateria in cui collidono leggi e principi del nostro caro mondo, capovolgendo senso, tempo e spazio, ma soprattutto le logiche sociali e politiche. E forse anche la mente di chi, nel leggerlo e rileggerlo, cerca di estrapolare esoterici significati o addirittura guarda diritto al nirvana. Chissà se al buon Ho Chien fosse capitato tra le mani “La fattoria degli animali” di George Orwell, uscito nel 1945! Innanzi a tutto ciò, mi asterrò quindi saggiamente dal tentare un’analisi dei significati di questo testo, cadrei in spiccia pedagogia da copia e incolla, e tanto meno cercherò di inerpicarmi sulla ripida scogliera dei numerosi giochi di parole del vocabolario inglese cui fa sovente ricorso l’autore (mine is a long and a sad tale, tanto per fare un esempio tra gli innumerevoli possibili, in cui si nota un gioco di parole, un pun tra tale, racconto, e tail, coda). Preferisco rimandare chi mi sta leggendo, con quel sorriso da Stregatto stampato sulla faccia, a qualche edizione contemporanea commentata o corredata di note (talvolta più del testo stesso). Cito, ad esempio, questa che possiedo, edita nella Biblioteca Universale Rizzoli nel 1998 e curata, nella sua edizione, da Attilio Brilli e Tommaso Giglio. Scelgo dunque di concentrarmi su qualche aspetto più terreno di questa celebre avventura fantastica in cui incappa la piccola Alice, o meglio sprofonda in caduta libera nel sottosuolo in cui si svolge, tanto che il titolo originale era proprio “Alice underground”. Un mondo non convenzionale, tanto quanto lo fu l’autore nel pensarlo e scriverlo mettendo a nudo le contraddizioni e il moralismo della società inglese dell’epoca vittoriana. Un periodo in cui, la storia fantastica di Lewis Carroll, rompe gli schemi della letteratura per l’infanzia il cui ruolo nell’educazione dei bambini, in modo particolare se espressione della classe media o di una certa aristocrazia, era quello puramente educativo, percorso obbligato per l’ingresso nella società adulta, segnato dai punti fermi di un certo tipo di insegnamento assai poco avvezzo a storie puramente fantastiche, ancor più se strampalate negli eventi e nei personaggi, da stravolgere la tradizionale immagine della scolara diligente. E Alice qui è tutt’altro che la prima della classe, al punto da non rammentare nulla di ciò che la scuola le ha insegnato, filastrocche e poesie comprese, ma ricerca e s’impossessa di uno spazio aperto alla fantasia e all’immaginazione, in barba alle regole della logica ed alle leggi della fisica. Una Alice che cresce e si rimpicciolisce continuamente nella metafora del voler o non voler diventare adulti, sospesa tra due mondi, indecisa nella scelta, circondata da un bizzarro, quanto divertente e talvolta inquietante bestiario parlante: dal Bianconiglio sino al Cappellaio Matto, con a seguire la Lepre Marzolina, la Regina di Cuori, lo Stregatto e il Brucaliffo. Tutti rigorosamente illogici e privi di quel buon senso e di quell’ordine di stile vittoriano. Al di là di ogni considerazione pedagogica che se ne voglia trarre, è indubbio il successo che Alice riscosse nella società dell’epoca e in tutte quelle a seguire. Tanto da avere un seguito, sempre grazie alla penna e alla fantasia del suo autore che scrisse poi “Through the Looking Glass and What Alice Found There” (Attraverso lo Specchio e Quel che Alice vi Trovò). Un gradimento di pubblico che la storia ha voluto immortalare anche nella celluloide. Nella versione animata di Disney del 1951 ad esempio, o in varie sceneggiature cinematografiche, tra le quali, sempre targata Disney, “Alice in Wonderland”, film uscito in sala nel 2010 con la regia di Tim Burton ed con un cast di prime donne: Johnny Depp (Il Cappellaio Matto), Helena Bonham Carter (La Regina Rossa), Anne Hathaway (La Regina Bianca), Alan Rickman (il Brucaliffo) e Mia Wasikowska nella parte di Alice.
It's just a delicious, borderline hallucinatory, confection of a book. Invention and imagination tumble over each other in the excitement, and there is something in there to delight every reader. There are countless plays on words (the mouse giving a very dry lecture on William the Conqueror to restore those who have been soaked by Alice's gigantic tears is the one that, for some reason, pleased me most), verbal pyrotechnics and semantic shenanigans to please the "ordinary" reader. And although they entirely passed me by at the time, I know now from various more scientifically-minded friends that their childish interests snagged on the mathematician author's various numerical and logic puzzles. 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