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Grandi romanzi (2010)

Tekijä: Fëdor Dostoevskij

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Le notti bianche
http://www.librarything.it/work/6175122/book/113141137

Delitto e castigo
Da dove cominciare per scrivere di uno dei romanzi più citati – non importa se a sproposito – della letteratura mondiale? Forse dal fatto che è il libro dello scrittore russo che ho finora amato di meno senza riuscire a capirne davvero il motivo, ma con il vago sospetto che sia la risultante di una somma di cause. L’azione si svolge negli ambienti sovente sordidi di una Pietroburgo soffocata dall’afa; i personaggi faticano a stimolare empatia, anche perché, abbastanza insolito in Dostoevskij, spesso non mostrano approfondite sfaccettature (il buon Razumichin, l’astuto giudice istruttore Porfirij, il volgare Lužin); la stratificazione degli argomenti di riflessione – quello dato dal titolo, le dinamiche tra consanguinei indagate nella famiglia del protagonista, gli spunti legati all’ateismo e quelli di critica sociale, con il rifiuto del socialismo e la disapprovazione per il nascente (per la Russia) capitalismo – inficia a tratti la scorrevolezza della narrazione. E poi c’è lui, Raskolnikov che invece di sfaccettature ne mostra fin troppe in un alternarsi di momenti di esaltazione e altri fortemente depressivi che finiscono per far entrare il lettore nella sua mente, il che non è certo un’esperienza piacevole. La sua parabola ricorda molto quella dell’uomo comune e forse per questo colpisce così tanto: giovane e dai grandi progetti incendiari, il protagonista deve ben presto fare i conti con la realta e le sue più prosaiche caratteristiche, dimostrandosi non all’altezza della sua ambiziosissima immaginazione. A partire dal delitto che commette: nato da una complessa teorizzazione sulla sua minor gravità visto che libera la società dal peso di un’usuraia, si rivela un banale omicidio per soldi in cui, per intervento dell’imponderabile, finisce in mezzo un’innocente. Favorito dalle circostanze, ma incapace di sopportare la drammaticità dell’accaduto, Raskolnikov dissemina indizi e affermazioni in un crescendo paranoico che pare avere l’unico scopo di farlo scoprire – come molti dei moderni assassini senza volto – tanto che il paziente Porfirij può lasciare che sia il tempo a portarlo all’autoaccusa. La sofferenza fisica che tormenta il protagonista – tra febbri e lunghe giornate immobile sul divano della sua miserabile camera in affitto - non è altro che la manifestazione del suo malessere morale, acuito dall’impossibilità di ricambiare l’affetto disinteressato di madre e sorella, nonché dall’amore inatteso di Sofja, figlia dell’ubriacone Marmeladov la cui famiglia viene beneficiata nell’inconscio tentativo di compensare il male fatto. In fondo, il vero castigo per Raskolnikov è il tormento a cui viene sottoposto dalla sua coscienza angosciata sia dal sangue versato, sia dall’incapacità di sostenere la situazione (altro che Napoleone…), tanto che una certa serenità pare farsi largo solo dopo l’arresto e il trasferimento in Siberia. Nella sua affannosa lotta con se stesso in cui solo a sprazzi le figure che lo circondano riescono a farsi spazio, il protagonista è in continuazione al centro della scena spargendo attorno a se l’inquietudine che lo percorre e che il fine indagatore di spiriti Dostoevskij restituisce con poderosa accuratezza: una problematicità che si riflette nell’esperienza di lettura, facendo di Raskolnikov un antieroe indimenticabile al quale però è scomodo sentirsi vicini.

L'idiota
Non è sempre facile leggere Dostoevskij e a prima vista questo poderoso romanzo può sembrare un cimento più impegnativo di altri: un racconto a tesi – lo studio di un’anima bella e a suo modo innocente nel suo impatto con uno spaccato della statica e mediocre società russa del tempo – in cui si intrecciano mille sottotrame, ma dove l’azione progredisce per spostamenti quasi impercettibili. Eppure è un libro che conquista subito, forse aiutato anche dalla traduzione di Federigo Verdinois, il cui periodare ‘rotondo’ è invecchiato con stile: non importano né le teorizzazioni né i (pochi) passaggi a vuoto dovuti alla fretta dello scrittore pressato dall’editore, sin dal primo dialogo in treno tra il protagonista e Rogožin si sprofonda in una narrazione avvolgente che regala stupendi ritratti di personaggi che si muovono in una quotidianità che Dostoevskij riesce a far sentire come eccezionale. Benché il personaggio principale sia il principe Myškin – tornato in Russia dopo un lunghissimo soggiorno in Svizzera dove è stato inviato ancora ragazzo per curare l’epilessia – risultano altrettanto importanti perlomeno il suddetto Rogožin (soggetto borderline ben prima che tale qualifica venisse solo immaginata) e le due donne a cui si legano i loro destini: la bella e perduta Nastas'ja Filippovna, sedotta adolescente dal maturo Tockij, che gioca con il proprio ruolo concedendosi libertà insolite sfidando il rischio di passar per pazza, finisce per specchiarsi negli atteggiamenti mercuriali, ma pure velleitari della rampolla di buona famiglia Aglaja Ivanovna. Questa è figlia di Elizaveta Prokof'evna, una delle figure più belle e senza dubbio la più travolgente della compagnia: lontana parente del principe, guida le tre figlie e la sua dimora con il piglio militaresco che manca, almeno nelle faccende domestiche, al marito generale Epančin. Accanto a simile ritratto di casata benestante, c’è la descrizione di quella di Ardalion Ivolgin costretta ad arrabattarsi affittando parte dell’abitazione in cui vive: un padre alcolizzato e pazzo, ma abile nell’ inventarsi mirabolanti ricordi, che schiaccia una moglie diafana e i mediocri figli, il livoroso Gavrila (peraltro innamorato senza speranza di Ardalja) e l’astuta Varvara, capace di trovarsi un matrimonio conveniente con l’usuraio Ptycin e di infilarsi in casa Epančin nonché nelle trame amorose che vi si svolgono. Il solo a distinguersi è il ragazzo Koljia che non per niente diventa l’unico vero amico del principe: non certo come l’eterno intrallazzatore Lebedev, canaglia sempre in piedi in bilico tra simpatico e l’antipatico, oppure come il giovane tisico Ippolit che sarebbe da compiangere se non desse l’impressione di ricavare il massimo dalla sua precaria posizione fino alla scena madre del tentato suicidio pubblico. Myškin naviga fra tutti costoro - e parecchi altri – dando una fiducia incondizionata a dispetto dell’evidenza che molti puntino solo ai suoi soldi: così facendo finisce per portare alla luce la vera natura di chi entra in contatto con lui e non è più capace di dissimulare pregi e, soprattutto, quei difatti che, pare dirci lo scrittore, finiscono senza scampo per prevalere. La narrazione rimane sempre corale, sia nelle pagine ambientate a Pietroburgo, sia in quelle che si svolgono nella località di villeggiatura di Pavlovsk, stringendosi attorno ai quattro soggetti principali solo quando è il momento di svoltare verso una conclusione in cui l’amore e la follia si combinano virando in tragedia un tono che nei precedenti capitoli si mantiene invece in linea di massima sul leggero almeno per quanto riguarda la voce narrante. Al contrario, i personaggi si perdono spesso e volentieri in lunghi sproloqui che vanno dalle velleitarie auto-giustificazioni (Lebedev ne è un vero specialista) ai più svariati argomenti: in quest’ultimo caso ne escono a volte divagazioni che appesantiscono l’insieme (si veda quella sulla pena di morte) rappresentando i rari momenti davvero deludenti. Assai meglio continuare appassionarsi alle piccole storie che si vanno sviluppando, mentre la Storia – in aperta polemica contro Tolstoij – è accuratamente tenuta fuori dalla porta a favore di uno sguardo critico e beffardo sull’immobilità socio-culturale della Russia vista attraverso gli occhi di un estraneo: interpretazioni cristologiche o meno, Myškin è un personaggio che forse come nessun altro fa della debolezza una forza fungendo in questo modo come perno di un romanzo che coinvolge come pochi chi è disposto a concedergli la giusta attenzione.

I demoni
E’ un libro sfuggente questo: multiforme sin dal titolo, di cui si ricordano numerose varianti a partire dall’accento di quello più conosciuto, sembra avviarsi in una direzione per poi sterzare verso quella opposta cambiando nel frattempo atmosfere e passo. Solo uno sguardo retrospettivo consente di coglierne la struttura d’insieme e, di conseguenza l’idea di fondo: la parte iniziale che narra con tono leggero le vacue peripezie di Stepan Trofimovič Verchovenskij, scrittore e poeta incompreso, e del suo amore platonico per la nobildonna Varvara Petrovna Stavrogina è l’emblema della generazione vissuta al termine della prima metà dell’Ottocento che, imbevuta di passione per l’Occidente (Stepan parla francese dino all’ultimo sospiro), era accusata dall’autore di essere dimentica dell’essenza dello spirito russo. Le colpe di tali genitori ricadono sui figli (o forse bisognerebbe affermare il contrario): cresciuti nella bambagia e senza una guida sicura, i rampolli si lasciano andare a un ribellismo fine a se stesso che sfocia nella tragedia che pervade una seconda metà di romanzo talmente popolata di pianti e stridor di denti da essere (quasi) senza speranza. E’ innegabile che l’assunto suoni un po’ reazionario raccontando che mal gliene incoglie a chi (o almeno a coloro che stanno a loro più vicino) si allontana dal rispetto per Dio, Russia e famiglia: ulteriori conferme si possono trovare nella vanesia Julia Michajlovna, la moglie del governatore che organizza un ballo benefico invitando chi può donare senza badare alla classe andando incontro alla propria rovina sociale, nell’ateismo nichilista dell’ingegner Kirillov che ha come unico sbocco il suicidio o, all’estremo opposto, negli ultimi giorni di Stepan Trofimovič in cui il vecchio miscredente si riavvicina alla religione. Ma si tratta di un’opera di Dostoevskij e la tesi sottostante, seppur discutibile, riveste un’importanza secondaria: non solo perché lo scrittore dà ampia dimostrazione di conoscere l’animo dei suoi connazionali (quanto sovietica è l’antiutopia immaginata da Šigalëv?), ma per la consueta, possente costruzione di situazioni e soprattutto di personaggi, come al solito millanta eppure descritti con una profonda analisi psicologica che, con poche eccezioni (il delinquente Fëd'ka, l’autocompiaciuto letterato Karmazinov), ne crea un ritratto a tutto tondo e, ciò che più conta, mai banale. Come accennato, le anime nere della vicenda sono due: Pëtr, figlio di Stepan, è un agitatore politico senza scrupoli pronto a uccidere più per proteggere (o favorire) se stesso che la nebulosa causa a cui è dedito, ma è surclassato – nell’attenzione dell’autore e, di conseguenza, nel fascino sul lettore – da Nikolaj Stavrogin. Rientrati nell’innominata città natale dopo un soggiorno pieno di misteri tra Svizzera e Francia (entrambi sono cresciuti lontani dai genitori), i due si danno subito da fare per sfruttare le debolezze di chi rappresenta l’ordine costituito: o, almeno, è questo lo scopo dell’attivismo del primo assieme al desiderio di mettersi in buona luce agli occhi del secondo. Pëtr non si tira indietro di fronte ai delitti più brutali pur di trascinare Nikolaj dalla sua parte, ma ciò che coglie in lui è il motivo per cui i suoi sforzi sono vani. Stavrogin è affascinato dal male in sè, senza neppure quella grandiosità che si può intravedere a volte in una mente criminale: non teorizza sull’argomento come Raskolnikov, ma osserva con maggior soddisfazione di quanto voglia confessare a se stesso le vie per le quali le sue azioni (o inazioni) possano rovinare le esistenze altrui. Di particolare efferatezza è il suo atteggiamento nei confronti delle donne (nelle quali vuol forse punire la madre assente?): sposa la disabile Marija per scommessa, seduce e mette incinta la moglie del discepolo Šatov per sfizio, rinnega il sentimento che prova per Lizaveta Nikolaevna che per lui non esita a disonorarsi (la sua figura è simile ad altre disegnate dall’atore, ad esempio Nastas'ja Filippovna ne ‘L’idiota’) di fatto condannandola a una morte terribile. La forza del personaggio di Stavroghin è confermata dalla sua fine, che è anche quella del romanzo: mentre Pëtr si adopera vigliaccamente per salvarsi la pelle, egli prende in qualche modo coscienza del vuoto colpevole della propria esistenza, traendone le estreme conseguenze che comunque usa per infliggere un’ulteriore pena a Varvara. ( )
  catcarlo | Oct 1, 2017 |
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